For whom the bell tolls
- Eleonora Pescarolo
- 4 ott 2022
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 14 dic 2022
WRITOBER 2022
Prompt 1 : Nebbia
FOR WHOM THE BELL TOLLS
Content Warning: Parolacce, Violenza
Doveva essere un lavoro semplice.
Entrare nella Città Alta, trovare l’assassino, incassare la ricompensa e andarcene. Non ci sarebbe stato alcun testimone perché il quartiere era stato evacuato da tempo e non c’era nulla come un contratto che ti dava piena libertà d’azione. Potevamo fare a pezzi quel bastardo, chiunque fosse, e uscirne impuniti.
Doveva essere un lavoro veloce.
L’assassino colpiva sempre alla stessa ora, scandita dalla grande campana posta sopra il Palazzo del Lucaire, e sempre nello stesso posto. Non doveva essere difficile farsi trovare pronti.
Fino a quel momento, l’assassino si era dovuto confrontare con nobili indifesi e guardie incapacità ma non si era ancora scontrato con mercenari sopravvissuti a ben due guerre.
Doveva essere un lavoro molto semplice.
Ci eravamo fatti dare metà del compenso, ci eravamo armati, ci eravamo fatti trovare pronti, le facciate immacolate delle abitazioni nobiliari e il pavimento della strada in pietra levigata come unici testimoni.
La campana aveva iniziato a suonare, vibrando nel silenzio delle strade e delle case disabitate.
E con il primo rintocco era arrivata anche la nebbia.
Tutti conoscevano Mezla. Una città costruita sull’acqua e per l’acqua dove un tempo c’erano solo paludi. Il prezzo da pagare per aver sfidato gli dei era quella di venire isolati in quella coltre grigia, di tanto in tanto.
Ma quella nebbia improvvisa.
Quella nebbia non era opera degli dei. Quella nebbia era un prodotto degli inferi.
Avevamo preparato le lame e gli archi, pronti ad affrontare chiunque fosse emerso. In quel momento era stato chiaro a tutti che l’avvversario che dovevamo affrontare non era un semplice tagliagole. Si parlava di creature oltre l’umano, capaci di magia, sopravvissuti all’epurazione di decenni prima. Un avversario che non avrebbe mai temuto le nostre armi.
Il secondo rintocco ci aveva sorpreso con le spade estratte, gli scudi alzati e gli archi tesi
Il primo a scomparire era stato Rimush. Il gaani, che di solito non proferiva parola, aveva chiesto aiuto nella sua lingua nativa. Il clangore di una spada metallica che cozzava contro la pietra ed era tornato il silenzio.
Eravamo partiti in cinque e al terzo rintocco della campana eravamo rimasti in quattro.
«Tenete gli occhi aperti e state vicini» aveva ordinato Ram’ta, un sibilo nel silenzio.
C’eravamo stretti schiena contro schiena, fianco contro fianco, lo sguardo fisso sulla nebbia che ci aveva avvolti come un sudario.
Il quarto rintocco ci aveva sorpresi a fluttuare in quel vuoto grigio.
La seconda a essere inghiottita dalla nebbia era stata Harria. Una freccia scoccata a fendere l’aria, l’odore metallico del sangue. Quando ci eravamo voltati per vedere che cosa avesse colpito, era il quinto rintocco della campana.
E noi eravamo rimasti in tre.
«Dobbiamo andarli a cercare, dobbiamo salvarli!» aveva urlato Vans, rabbioso, nascondendosi dietro lo scudo come a proteggersi dalla nebbia.
«Vuoi andare dove, Vans? Tu ci vedi attraverso questa nebbia del cazzo?» gli aveva risposto Ram’ta. «Pensa a sopravvivere, piuttosto.»
Il sesto rintocco ci aveva sorpresi a discutere, avevamo stretto il cerchio, spalla contro spalla, e la nebbia sembrava aver stretto il suo attorno a noi.
Il terzo a scomparire fu Vans, ma quel bastardo non se ne era andato in silenzio. Urlò tanto da attirare la nostra attenzione e lo vedemmo scivolare verso la nebbia. Solo un secondo, un istante, solo le mani che cercavano di ancorarsi al pavimento, a cercare un appiglio per non essere trascinate via. Poi la nebbia inghiottì anche quelle.
E al settimo rintocco della campana eravamo rimasti solo in due.
«Merda, Lars, dobbiamo fare qualcosa» mi aveva detto Ram’ta, la disperazione nella voce. Io non ero riuscito a rispondere, il terrore che mi attanagliava le viscere. All’ottavo rintocco le mie mani avevamo cominciato a tremare. Qualcosa mi diceva che sarei stato il prossimo.
Ma avevo torto.
«Figlio di puttana, combatti alla pari se hai le palle! Fatti vedere!» aveva urlato Ram’ta.
E la nebbia l’aveva ascoltata.
Qualcosa di oscuro ne era emerso. La creatura di un incubo, che poteva essere stata partorita solo dall’ombra più oscura proiettata dal sole. Una creatura che non aveva occhi, non aveva bocca, non aveva contorni: una creatura creata dall’ombra è fatta solo di ombra, una sagoma ritagliata nel tessuto stesso della realtà. Una creatura che non emetteva suono e non aveva espressione.
Al nono rintocco la sua forma era mutata. Si era allungata, tagliando la nebbia come una lama affilata. Era arrivata alla gola di Ram’ta mentre la caricava, spada in una mano e scudo nell’altra. Il suono della carne lacerata, il gorgoglio del sangue che sgorgava dalla ferita.
Il corpo di Ram’ta non aveva mai toccato terra: l’ombra era arrivata prima a divorarla, senza lasciarne tracce.
Al decimo rintocco stavo correndo. Avevo il cuore in gola e il respiro corto. Avevo cercato di aprirmi una strada nella nebbia, di correre sulla pietra levigata che si era fatta scivolosa. Pregavo gli dei di salvarmi, perché era l’unica cosa che potevo fare in quel momento.
All’undicesimo rintocco i miei piedi mi avevano tradito. Ero inciampato, sbattendo la faccia sulla pietra levigata, sentendo in bocca il sapore del sangue, le armi che mi sfuggivano dalle mani e finivano inghiottite dalla nebbia.
Doveva essere un lavoro semplice e veloce, ma al dodicesimo rintocco della campana non era rimasto più nessuno.
Al dodicesimo rintocco eravamo tutti morti.
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